RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO
EYMERICH ALL’INFERNO
1.
Che il sangue fosse rosso come rubino
Eymerich lo sapeva già. Lo aveva visto numerose volte sgorgare copiosamente
dalle ferite, molte delle quali inflitte in sua presenza. Che però anche il
sangue essiccato contenuto nel reliquiario fosse brillante al pari di una
pietra preziosa, questo l'Inquisitore Generale del Regno di Aragona non se lo
aspettava. Forse si trattava solo dei riflessi provenienti dalla minuscola
capsula di vetro. Eppure, esposto al sole già caldo dell'ora terza, il prezioso
contenitore incastonato nell'ostensorio d'oro restituiva proprio bagliori
guizzanti simili a quelli di un rubino. Per un attimo Eymerich considerò
l'ipotesi che il sangue potesse essere ancora fluido, pure a distanza di così
tanto tempo.
“Ebbene,
continuate” ordinò,
restituendo il reliquiario al suo interlocutore. Questi, un uomo corpulento con
una folta zazzera di capelli bianchi come la neve, lo raccolse e lo strinse a
sé, come per trarne forza. Era vestito, al pari dell'inquisitore, con l'abito
bianco e nero dei Predicatori. Proseguirono entrambi la camminata nel chiostro.
“Tutto questo non è purtroppo confermato
da documenti ufficiali.”
“Pessimo. Dovreste mantenere un archivio
storico con tutte le personalità che passano in visita presso di voi.”
“Lo teniamo infatti,” si azzardò a dire padre Uberto,
decisamente sulla difensiva. Cercava di non dare a vedere il timore che gli
incuteva Eymerich, ma con scarso successo. “Se però la persona in questione
giunge qui in veste di umile viandante e domanda un pagliericcio come chiunque
altro, come possiamo conoscerne l'identità?”
Eymerich rimase in silenzio per qualche
istante, considerando la situazione. Poi replicò: “E allora come sapete che è
passato di qui?”
“Voci. Il pettegolezzo si diffonde più in
fretta della Parola di Dio, lo sapete anche voi. Pare che sia stato lo stesso
pellegrino a confidarsi con il confratello addetto all'ospitale, poco prima di
congedarsi, rivelandogli il clarum nomen di colui che avevano accolto.
La fama rende desideroso di onori anche chi dovrebbe muoversi in segreto.”
“Devo suppone che i confratelli presenti
all'epoca non siano più qui, altrimenti mi avreste già condotto da loro. Non è
vero, padre Uberto?”
“Supponete bene, mio signore. E come
potrebbe essere diversamente? Stiamo parlando di avvenimenti accaduti più di
sessant'anni fa. E gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i
più robusti,” aggiunse, citando il salmo novanta con
malcelato compiacimento.
“Voi però sembrate credere a queste voci.
Altrimenti non le avreste comunicate al vostro vescovo.”
“La trovo una simpatica diceria. Con buone
probabilità di esser vera, ecco tutto. Il nostro non è propriamente un ordine
che si presta alle celie.”
“Comunque l'idea che la sua opera sia nata
tra queste mura vi stuzzica,” accennò Eymerich, quasi casualmente.
“Perché negarlo? In fondo è un
componimento che...”
“Perché negarlo, dite?” là interruppe secco
l'inquisitore, con una asprezza improvvisa che fece tremare padre Uberto. Lo
aveva in pugno. Continuò con un tono affilato come una lama: “Mi sembra
preoccupante che voi, un fedele servo della Chiesa, possiate ammirare così a
cuor leggero l'opera di quest'uomo.
“Devo forse ricordarvi i suoi frequenti
scontri con il pontefice? O le sue acri invettive contro il potere dei vertici
della Chiesa? E che dire delle sue vicinanze con gli ambienti francescani,
tanto che sembra ne fosse addirittura un terziario?” Vecchie ruggini
riguardanti gli scritti di Raimondo Lullo, assai apprezzati nell'ambito dei
Frati Minori, gli facevano guardare con sospetto chiunque avesse a che fare con
l'ordine fondato da San Francesco d'Assisi.
Padre Uberto si fece forza, inspirò a
fondo e si fermò ai piedi di una colonna, calibrando con cura le parole della
sua risposta. Con un inquisitore occorreva prender bene le misure.
“Riconoscerete però, mio signore, che si
tratta di un'opera estremamente morale ed edificante per la cristianità. Lo
stesso San Domenico, fondatore del nostro ordine, vi viene dipinto in termini
meravigliosi e solenni. E poi la vividezza con cui, nella Commedia, vengono
descritte le pene degli inferi dovrebbe aver cambiato la condotta di più di un
fedele.”
“Compito che dovrebbe spettare a noi, non
a un poeta,” replicò a sua volta Eymerich, con più convinzione nella voce di
quanta ne avesse nel cuore. “Ne torneremo a parlare,” aggiunse, in tono
vagamente minaccioso. “Resterò qui ancora qualche giorno, per svolgere
ulteriori ricerche.”
Eymerich si accomiatò dal priore senza
salutare e ripercorse il porticato a ritroso, immerso nei suoi pensieri. In
effetti la figura di Dante degli Alighieri lo aveva colpito. Le denunce sulla
corruzione della Chiesa e i suoi scontri con il papato erano scritti nero su
bianco all'interno della Commedia stessa. D'altro canto Dante aveva
sostenuto con chiarezza e rigore il sistema aristotelico, sia per quel che
riguardava la disposizione delle sfere celesti, sia per ciò che concerneva la
classificazione dei peccati. La filosofia dello Stagirita era stata ripresa con
eccellenti risultati dal domenicano San Tommaso d'Aquino, che ne aveva fatto un
sistema al servizio della fede cristiana. E se l'ordinamento tomista aveva
avuto così vasto seguito forse dipendeva anche dalla propaganda che ne aveva
fatto il poeta fiorentino nella sua opera massima.
L'inquisitore se ne usci da questi
pensieri di comprensione con una scrollata di spalle. I barlumi di ammirazione
che poteva provare nei confronti dell'Alighieri non lo avrebbero distolto dal
suo compito, che richiedeva una assenza totale di pietà. Verificare se davvero
Dante avesse soggiomato presso quel convento e se davvero in quell'occasione
fosse sorto lo spunto per la scrittura della Commedia era solo parte di
una indagine più complessa.
Il 1376 aveva visto Eymerich accompagnare
papa Gregorio IX a Roma. Durante il soggiorno romano, l'inquisitore aveva avuto
modo di completare il suo libro più importante, il Directorium Jnquisitorum,
opera che comunque avrebbe continuato a perfezionare negli anni successivi.
Era stato proprio frugando negli interminabili archivi ecclesiastici della
Città Eterna che Eymerich aveva rinvenuto la copia di una lettera di dieci anni
prima. In essa padre Uberto tracciava al proprio vescovo un bilancio delle
attività ereticali punite grazie al contributo del suo convento. Vi era una
piccola nota in cui Uberto elogiava chi, giustamente temendo i castighi
infernali, non deviava dalla retta via; proprio in quel punto Uberto riportava
non solo la diceria sul passaggio di Dante presso il convento di San Domenico,
ma soprattutto la voce secondo la quale il poeta sarebbe stato ispirato nelle
sue descrizioni dei gironi infernali da una visione ottenuta contemplando il
reliquiario di San Sebastiano.
La cosa era subito parsa strana ad
Eymerich. Non aveva mai provato troppa stima nei confronti dell'Alighieri,
anche se un angolo della sua mente ne riconosceva la maestria e l'originalità
nel tratteggiare le pene dei dannati. Ma ora quell'appunto gettava una luce
tutta diversa sull'intera opera. Dante aveva davvero avuto esperienza diretta
delle profondità infernali? Se la voce aveva la minima parvenza di fondamento,
probabilmente quella visione non gli era stata mandata dall'Onnipotente.
Esistevano casi di santi che per miracolo avevano scorto per qualche istante
l'abisso oltretombale, ma Dante decisamente non rientrava tra questi. Come
poteva essere nelle grazie divine un uomo, per di più laico, che aveva
addirittura collocato svariati pontefici all'inferno?
Nella sua carriera di inquisitore ormai
più lunga di un quarto di secolo, Eymerich era stato testimone di fin troppi
avvenimenti che avrebbero sconvolto la mente di uomini comuni. Ma lui non era
un uomo comune; e sapeva che questo genere di irruzioni soprannaturali
nell'ordine divino aveva un solo mandante. Il Nemico per antonomasia. Satana.
Forse Dante aveva stretto qualche patto diabolico per vedere
coi suoi occhi ciò che sarebbe andato a descrivere. Ma anche se così non fosse
stato, restava sempre l'eventualità che qualcosa di pericoloso si annidasse nei
paraggi del convento, o addirittura all'interno del convento stesso. Ed
Eymerich era là per scoprirlo.
Il sangue. Il sangue del martire San
Sebastiano.
Eymerich aveva ben presenti dinanzi
agli occhi le raffigurazioni iconografiche del santo. Legato a una colonna,
vestito solo di un perizoma per coprirne le nudità, e trafitto in modo orribile
da uno stuolo di frecce che lo trapassavano da parte a parte.
Perché il sangue fluito da quelle antiche
ferite dovesse trovarsi nel reliquiario, Eymerich non se lo chiedeva. Non tutte
le reliquie in circolazione erano vere. Che dire di questa? Quel piccolo grumo
rappreso aveva davvero attraversato dieci secoli per giungere lì di fronte a
lui, nella cella debolmente illuminata dal sole ormai al declino?
Aveva parlato con ogni confratello del
convento, dal priore al più imberbe dei novizi, ma s~enza riscontrare nulla che
già non conoscesse, se non abitudini igieniche che sperava migliori in un
convento del suo stesso ordine. Aveva esaminato con pazienza i documenti e le
carte del luogo, senza notarvi niente di strano. Gli rimaneva solo la traccia
del reliquiario, da cui non contava di cavare granché. Da un lato ne era
contento; un falso allarme era pur sempre una battaglia non persa. Dall'altro
lato, però, il fuoco inestinguibile che alimentava la crociata di Eymerich
esigeva sempre nuove battaglie in cui mettersi alla prova. E la convinzione che
nei suoi scontri con il demonio ne sarebbe sempre uscito o vincitore o morto
non faceva che rendergli più amaro questo mancato duello.
Il sangue. Che cos'era il sangue in fondo?
Uno dei quattro umori fondamentali assieme alla bile gialla, alla bile nera e
alla flemma. Da sempre associato al fuoco, alla collera, all'impeto, alla
violenza. Ma San Sebastiano lo aveva versato senza scomporsi: i dipinti del
martirio lo mostravano con un'espressione tranquilla ed estatica, mentre guarda
in alto verso quel regno che già lo attende. E dunque questo piccolo oggetto
avrebbe dovuto essere, semmai, un tramite per intravedere le delizie celesti,
non i tormenti dello Sheol.
Eymerich era impegnato entro questi
pensieri e misurava coi suoi passi l'esiguità della stanza Il sole scese fino a
riempire completamente la piccola finestra entro cui era appoggiato il reliquiario.
La luce filtrò attraverso la capsula contenente il sangue. Ed accadde.
L'inquisitore capì subito che qualcosa si
stava compiendo. La stanza era stata allagata all'improvviso da una luce
cremisi, innaturale. Non rossa come il sole che volge al declino. Rossa come sangue
che fuoriesce a fiotti da una ferita.
La luce divenne insostenibile, si fece di
una consistenza quasi liquida, a tratti grumosa. Era come essere travolti da
un'ondata di sangue, un'ondata che, follemente, senza alcuna ragione, urlava.
Il fragore era quello di mille persone dilaniate da uncini.
Prima di essere sommerso, Eymerich pensò
per un momento che quello era il sangue di tutte le persone che aveva
condannato.
Svenne.
Poi tutto divenne nero.
Anzi, rosso.
* * *
Era quello l'inferno?
Eymerich avrebbe voluto stringersi la
testa per il dolore e lo sconcerto. Si guardò le palme delle mani, scure come
se si trovasse in un cono d'ombra, e vide attraverso di esse, inconsistenti
come fumo. Sussultò, non tanto per questo fatto ma per l'oggetto della sua
visione.
Era come se i colori si fossero
rovesciati. Il cielo era diventato di un colore arancione scuro, attraversato
da orribili striature nere. Si trovava in una sorta di viale contornato da
malsani alberi viola. Un interminabile mare color del sangue si estendeva poco
più in là. Tutt'attorno si innalzavano innaturali pareti lisce.
Eymerich annaspò, cercando di trovare un
punto d'appoggio per non smarrire la ragione. Si concentrò sulla torma di persone
che avanzava come un solo uomo per questa strada. I dannati, non poteva esservi
alcun dubbio. Vestiti di stracci e seminudi. Le loro grida gli giungevano
attutite, come attraverso un velo di ovatta.
Gli passarono di fianco, senza vederlo.
Per loro non esisteva, guardavano dritto innanzi a loro. Dei tanti pensieri che
affollavano la mente di Eymerich, quello di essere morto e di trovarsi
all'inferno lo sfiorò soltanto, andando però ad annidarsi in un angolo oscuro
della sua mente, senza svanire del tutto. Dopotutto era inconcepibile che un
fedele servo dell'Onnipotente potesse trovare destino diverso dalla corona dei
santi. No, il pensiero che più turbava l’inquisitore in quel momento era quello
di non esistere, di essere solo una vaga figura eterea che nessuno avrebbe
visto nè sentito.
Tentò di ignorare queste orribili
considerazioni e si concentrò sulle visioni che lo attorniavano. Da un punto
poco più in alto tre figure di donna attirarono la sua attenzione.
Però che l'occhio m 'avea tutto tratto
ver l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernai di sangue tinte,
che membra femmine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
"Guarda" mi disse "le
feroci Erine".(1)
Le
Erinni scesero dalla loro posizione sopraelevata e si unirono alla moltitudine
degli infelici. Si battevano il petto, pronunciando parole che non erano di
questa terra.
Con l'unghie sijen dea ciascuna il
petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch 'i'mi strinsi al poeta per sospetto.(2)
Eymerich si rese conto di uno
spostamento del proprio punto di vista. Ignorava se ciò fosse frutto della sua
volontà di muoversi per vedere altri aspetti dell'oltretomba, o se venisse
semplicemente trascinato da una forza non visibile, invischiato in un gorgo che
lo faceva spostare per ondate irregolari. A volte la sua visione cambiava così
istantaneamente da fargli credere di avere attraversato le distanze in un
batter di ciglia.
Ora si trovava ai margini della città.
Lontani echi della lettura della Commedia gli si facevano via via più
vividi man mano che riconosceva i contorni della città di Dite. Si accostò alle
mura che cingevano gli eretici tra alte pareti. I dannati sembravano ristagnare
al di fuori di esse.
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.(3)
Un altro lampo, un'altra ondata simile
a un battito di cuore, un'altra visione. Eymerich dedusse di trovarsi dentro
alla città di Dite. La folla dei dannati pareva ancora più agitata, se possibile.
Alcuni tra essi, preda dei propri peccati, si malmenavano fra di loro. Ma lo
spettacolo più strano e terribile era dato dal paesaggio, disseminato di
sepolcri e di fuochi.
E io, ch 'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com 'io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogni man grande campagna
piena di duo/o e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
si com 'a Pola, presso del Carnaro
ch Italia chiude e i suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt'il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che '1 modo v'era più amaro;
ché tra gli avelli fiamme eran sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun arte.(4)
I sepolcri degli eretici erano sparsi
irregolarmente e creati con forme astruse, a raffigurare un intelletto usato
secondo fini deviati e contorti. Alcuni erano larghi e
bassi, altri compatti e tozzi. Le
fiamme si levavano un po' ovunque, talvolta anche dai sepolcri stessi. Le urla
dei dannati sembravano ora farsi più vicine e fastidiose. Ma anche queste grida
furono coperte da un frastuono tale che Eymerich temette, per qualche istante,
che il cielo dovesse crollargli sul capo.
E già venia su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di
spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non~'altrimentiJatto che d'im vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz'alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
Li occhi mi disciolse e disse: "Or
drizza il nerbo
E fa fuggir le fiere e li pastori.
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo.(5)
La spessa cortina di fumo invase la
città di Dite. I dannati furono sparpagliati qua e là, scompostamente, come un
gregge al giungere del lupo. Tossivano e si chinavano per il dolore. Alcuni
rimanevano a terra. Lo stesso Eymerich avverti una sensazione di occlusione al
respiro e un leggero lacrimare agli occhi, anche se non seppe spiegarsene la
ragione. Tutto si fece frenetico: i dannati urlavano, il fumo si faceva più
fitto, il fragore diventava insopportabile.
Eymerich fu attraversato da un brivido al
pensiero che quello era l'inferno a cui aveva destinato la maggior parte delle
persone gi~stiziate per suo ordine. E il brivido fu di piacere, nel constatare
che la pena era adeguata alla colpa.
Vi fu un altro lampo. Tutto si fece rosso.
Eymerich fu attraversato da due suoni così potenti che temette di esserne
annichilito. Furono due colpi secchi e improvvisi, come tuoni, a breve distanza
l'uno dall'altro.
Poi perse conoscenza.
* * *
L'inquisitore si sollevò da terra
appoggiandosi pesantemente allo scrittoio. Il sole ormai era quasi del tutto
tramontato e la cella del convento sarebbe presto piombata nell'oscurità.
Rimase confuso non più di qualche secondo, poi contrasse il volto nel ghigno
che, in rarissime occasioni, costituiva il suo inquietante sorriso.
Aveva trovato una nuova sfida. Non sapeva
se il reliquiario che aveva di fronte a sé fosse un oggetto toccato dallo
Spirito o impregnato dal maligno. Perlomeno non lo sapeva ancora; ma avrebbe
indagato. Di certo una reliquia di questo genere non poteva rimanere nelle mani
di padre Uberto e del suo convento. No, l'avrebbe condotta con sé a Roma
durante il viaggio di ritorno. Avrebbe abbandonato Genova quanto prima, poco ma
sicuro.
2.
“Sangue chiama sangue. Non è un modo di
dire. La realtà è sotto i nostri occhi, anche se raramente riusciamo a vederla.
“Quando instauri un clima di violenza
l'aria che respiri si riempie di sangue. Non chiedermi come avvenga. Forse è
una questione di energia elettrica (sai quando dici che c'è tensione
nell'aria? ecco), di fisica quantistica, di qualche particella che non
abbiamo ancora scoperto e che rende istantaneo il contatto con gli altri
uomini, al di là del tempo e dello spazio. Di preciso non saprei. Il sangue ha
memoria, comunque. E' un mare tumultuoso che i corpi umani custodiscono
trasportandolo in ogni dove (lo notava anche Calvino) ed è un mare che impiega
un attimo a ribollire. Quando dico che sangue chiama sangue intendo proprio
questo: una piccola increspatura nel mare del sangue può diventare, per onde
successive, un oceano in tempesta, che nulla e nessuno potrà più fermare. E'
come se la violenza entrasse in risonanza con quella porzione di mare carminio
che scorre entro le tue vene. E a sua volta genera altra violenza. Non mi
credi, dici? E allora che senso daresti a ciò che abbiamo vissuto in questi
giorni? Il mondo qui ha girato al contrario di come dovrebbe (lo so, avviene
così quasi in ogni altro luogo). Pensa a quelle ragazzine con le magliette
rosse del Che e i capelli rasta che stavano davanti a noi. Avranno avuto
cinquant'anni in tre. Pur nella loro ingenuità, se vuoi - avevano in fondo lo
stesso look, forse più per moda che per convinzione! - erano sicuramente animate da uno
spirito onesto. Chi mai potrebbe pensare di fare del male a un corteo pacifico in
cui ci sono dei semplici ragazzi del liceo? Eppure hai visto anche tu. A
un certo punto fuori da quelle pareti blindate è stato come essere all'inferno.
Quelle maledette tute nere hanno iniziato a spaccare vetrine, a mettere a fuoco
le automobili e i cassonetti che incontravano lungo la loro strada. Non c'è
stata storia: la Polizia ha reagito in maniera durissima. Fossero stati solo i
lacrimogeni! No, c'è stata davvero rabbia. Ci hanno picchiati per dare una
lezione, non per sedare un tumulto. E allora qualcuno dei nostri ha sentito il
proprio sangue ribollire e ha contrattaccato. Ma è un qualcosa che non lascia
scampo. Lo hai visto anche tu com'è andata a finire. E' un meccanismo
cieco, irrazionale, che conduce solo all'annichilimento reciproco. E si rischia
di creare un gorgo di sangue da eui~nulla e nessuno potrà più uscire. Per quel
che mi riguarda il ricordo di questi giorni contro la globalizzazione sarà
segnato per sempre dall'eco di quei due spari in piazza Alimonda. E' stato li
che ho capito che non mi sarei più lasciato trascinare dal tumulto del sangue.
Altrimenti vedrei gli altri esseri umani come semplici ostacoli da rimuovere, e
con ciò perderei la mia umanità. Sarei solo una barchetta nel vortice. Ma ora
che l'incontro degli otto grandi è finito sembra che finalmente possiamo
riposare un poco. Spero che stanotte, qui alla scuola Diaz, noi tutti penseremo
solo a dormire e... cos'è stato questo rumore...? “
________________________________________________________________
( 1)
Inf. IX, 35-45.
(2) Inf IX, 49-5 1.
(3) Inf.
VIII, 76-78.
(4) Inf.
IX, 107-120
(5)
Inf. IX, 64-75